(06-03-2025)
“Vola a mezza altezza, Icaro, in modo che l’umidità non appesantisca le piume se vai troppo in basso, e il calore non le bruci se vai troppo in alto.” ( Le Metamorfosi di Ovidio).
L’ammirazione per certi luoghi, il desiderio quasi incombente di raggiungere quello che immaginiamo come qualcosa di speciale, qualcosa che migliori la nostra vita, la nostra quotidianità, spinti e sopraffatti dalle lusinghe di una possibile fuga dalla routine che vorremmo spezzare tramite le sue imponenti forme, rivela in realtà quell’inerzia dell’animo dei nostri tempi; un’onda che spinge la massa verso un unico obiettivo che non trova ostacoli; rassegnati coloro che lo osservano, trepidanti di orgoglio misto a superbia quelli che lo realizzano.
Quel tripudio, mal riposto, che le viene attribuito, quasi fosse il viatico ad una nuova era di ricchezza e prosperità, è in realtà l’ultima fiammata di un fuoco già spento, il colpo di coda di una società che segna lo scorrere della sua decadenza culturale già iniziata tempo fa, e che adesso cerca di nascondere con la maschera posticcia di una sorta di positivismo dogmatico che ha già visto nel passato quegli accenti di vitalità finiti nel grottesco perchè privi degli elementi dello spirito umano sincero e realmente interessato al benessere comune, fatto cioè, di scelte oculate e avulse dalla semplice speculazione materiale, prodighe come un buon genitore verso il proprio figlio che pone particolare attenzione nel trasmettergli quei valori educativi dediti all’onestà di ragionamento, alla riflessione, alla temperanza, al rispetto; che così facendo generano azioni virtuose che si riflettono tra gli uomini realizzando una società che non insegue il benessere per il benessere stesso ma per far comprendere che questo nasce da quei comportamenti e che tale rimane solo quando a questi ci si attiene.
Voi adorate questi alti edifici quasi fossero delle divinità poste dinanzi ad un altare; gioite del loro innalzamento come segno del progresso quando in realtà ne sottolineano l’opposto andamento; e quasi lasciate ad essi il compito di provvedere al miglioramento della città, dei luoghi del vivere, del commercio, degli affari. Involucri che per la maggior parte racchiudono la speculazione finanziaria e come questa vacui e senza scopo se non quella di mostrarsi per il solo fatto di essere alti, talmente alti da non poter essere osservati nemmeno per intero, ovvero con un solo sguardo, ma bisogna alzare il capo e vederli a tratti, dal basso in alto e viceversa.
Dovrei allontanarmi parecchio per poterli percepire nell’insieme, talmente tanto che ad un certo punto ne perderei quasi il contatto, sarebbe come vedere una fotografia, una cartolina con tanti saluti a quel legame diretto tra uomo ed edificio, il suo prolungarsi verso l’alto non fa che disperdere i fondamentali rapporti geometrici che utilizziamo quando ci si approccia ad un progetto. Un grattacielo è qualcosa di scollegato, se ad esso ci avviciniamo per vederlo meglio ce ne sfugge l’insieme se da esso ci allontaniamo per coglierlo nella sua interezza la distanza è tale da perderne ogni contatto.
Non a caso le sue forme vengono esaltate a grandi distanze, spesso con visuali effettuate con delle telecamere collocate su dei droni o voli di elicotteri che riprendono immaginifici contorni comunemente definiti Skyline.
Quello secondo loro dovrebbe essere il suo valore assoluto, la sua bellezza, il suo apporto al progresso sociale. Linee pure e minimaliste, alti e bassi, un’alternanza di parallelepipedi e niente più, urlano a gran voce l’orgoglio di chi li ha progettati e costruiti. E in molti a seguire quelle forme, catturati e sedotti dalla sua apparente purezza; perchè nell’uomo è più comodo scegliere di capire le facili rappresentazioni piuttosto che approcciarsi con fatica e dovizia di mestiere verso un’architettura che esprima mille forme e colori, e di questa facilità ne beneficia sia chi progetta che chi costruisce. Voi credete che sia quello il senso del costruito, il suo fine ultimo, dato che è questo che i grattacieli emanano in tutta la loro presenza. Ma quella cosiddetta purezza delle forme non è che in realtà un volume immerso nel contesto cittadino senza nessun collegamento con esso. E’ il vivido esempio di una società alienata, senza finestre per aprirsi all’esterno, come in un acquario dove tutto appare affascinante, la sua vista, i suoi cristalli, le luci; ci si bea di questi spazi senza vitalità, muti come lo sono gli acquari, e in essi trasferiamo la superbia che mostriamo al suo cospetto.
Ricercati come acqua nel deserto per andarci a vivere o per lavorarci, ci chiudiamo in essi senza nemmeno la possibilità di affacciarsi; ambìti dalla moltitudine che brama di abitare in questi luoghi in quanto considerati snodo centrale della vitalità quotidiana e della presunta socialità urbana per sentirsi al centro del mondo, salvo poi rimanere soli, chiusi dall’alto delle sue vetrate osserviamo il mondo dall’esterno con il suo brulichio di gente che va e viene e al pari di colui che si ritrae nella sua dimora lontano dalla città rimaniamo senza contatti pur avendoli cercati e pagando tale desiderio a caro prezzo. Un desiderio che non viene esaudito; rimane la solitudine nel caos della vita cittadina che si esprime essenzialmente attraverso la comunicazione orizzontale e difficilmente in quella verticale.
Nemmeno un balconcino dove affacciarsi a definire il naturale proseguo della vita all’interno dell’edificio. Esterno e interno in un continuo fluire di vita quotidiana, in esso ci affacciamo, salutiamo, parliamo con quelli accanto a noi e sotto di noi in strada. Così Shakespeare suggellò nella sua opera l’amore tra Romeo e Giulietta; quel balcone così noto adempie perfettamente alle sue funzioni. Quante forme ha avuto nel corso della storia, quante decorazioni, invenzioni, quante storie sono state raccontate e vissute sui balconi? Ecco, tutto questo nel grattacielo non può essere ammesso, esso è l’esempio in forma fisica dell’asocialità imperante, della predominanza della forza sulla raffinatezza, della banalità sulla ricercatezza, dell’industria rampante e rapace sulla creatività dell’artigiano.
Voi non capite! Non capite! Così vi dicono. Non capite che quei colori veneziani, quei capitelli finemente decorati, quegli stucchi così perfettamente plasmati oggi sarebbero un orrendo orpello, uno sproloquio inutile che esprimerebbe una ridondanza di elementi che mal si concilierebbe con l’umiltà di pensiero che si vorrebbe nella società contemporanea che incarna i valori di uguaglianza e di libertà, definendoli nella purezza delle linee artistiche ed architettoniche.
Ma per quanto paradossale possa apparire questa mia affermazione, non esiste un’architettura più altera, priva di umiltà e ricca di protervia di quella che pretende in poche linee di sedurre il proprio sguardo, di attrarre tramite la sua evanescente perfezione la nostra attenzione. Tendere ad una sorta di estasi formale, profusa al solo godimento; ecco, in questo, io penso, non c’è nulla di umile, piuttosto un voler ergersi a paradigma assoluto della bellezza contemporanea alchè distaccandosene si viene bollati come eretici o nostalgici del passato. E pure se tali architetture non funzionano queste continueranno a pretendere di essere capite a riprova di una inesistente umiltà. E come tale fugge dalla complessità dei rapporti umani che invece chiedono e richiedono quella vigorosa e rigogliosa forza degli elementi decorativi fatti di molti colori e forme. Questi al contrario delle linee dei grattacieli nascono da tradizioni artistiche locali e non sono li per esibire con distacco l’occupazione di uno spazio, ma si nutrono di ciò che gli sta intorno, della conoscenza cittadina, il conviviale incontro fatto di scambi di doni e di parole. Un infuso di valori che trae origine da secoli di storia comune e che nella rappresentazione vivace delle architetture e dei colori non vuole ammantarsi di superficiale allegrezza o lasciarsi andare all’ebbrezza del piacere smodato, ama anzi riaffermare quella primitiva solennità e severità di modi che prima di noi uomini capaci di grandi visioni avevano creato seguendo solenni principi, e quello che noi pensiamo essere frivolo o sovrabbondante in realtà era frutto di una sincerità d’animo e di modi.
Oggi che quei motivi nessuno più inserisce nelle nuove costruzioni non possono far altro che registrare la misera espressione che da essi ne scaturisce. Facciate svuotate di ogni colore quasi che questo possa indurci alla follia, ne sono talmente impauriti da trasformarsi in fobia; la cromofobia del contemporaneo è il sintomo dell’aridità dell’architettura dei nostri tempi che cerca nella realtà forme ideali e indistinte, che vorrebbero indurre lo spettatore ad una sorta di estasi religiosa, ma che nel concreto diventano un ammasso di volumi alienanti.
Disdegnano gli elementi decorativi, li giudicano inutili perchè oramai passati e anacronistici, come fossero delle vecchie cianfrusaglie sorpassate dalla nuova tecnologia, salvo poi esaltarsi cercando di indurre lo sguardo altrui verso quella parete priva di fughe o quelle fasce di metallo lavorato in un certo modo che circondano l’edificio. E cosa sono questi se non particolari della struttura?
Avete ideato e seguito la teoria de “Less is more” ed ora vi entusiasmate per il colore di una parete o la lavorazione di un intonaco, e cosa sono questi se non dettagli nel corpo totale del costruito? Tutta questa letteratura moderna, tutte queste costruzioni per giungere a quella che alla fine è solo una sottrazione di elementi, definita fondamentalmente dalle misere leggi dell’economicità che a pochi conveniva e ai molti danneggiava. Questa sottrazione di elementi è il giudizio finale, definitivo: gli architetti non li sanno utilizzare e dunque li eliminano pur volendoli in qualche modi farli notare.
Senza volerlo, gli architetti in massa hanno seguito il fatuo sentiero dell’innovazione abbagliati dalla promessa di una soluzione a tutti i problemi, mentre dall’altra uomini dediti alla sola convenienza personale già si fregavano le mani al pensiero di nuovi e immensi guadagni che avrebbero conseguito. Mentre si declamava con tanta forza l’ineffabile sobrietà della nuova estetica i capitali erano già pronti a sfruttarne le caratteristiche; si costruirono fabbriche e sistemi industriali a catena esaltati dalle possibilità di emanciparsi dall’incertezza del lavoro artigianale salvo poi scoprire col tempo che questi sistemi erano tutti fallimentari.
Ma il grattacielo resiste, esso per sua natura è la sintesi tra architettura e industria, un intreccio di interessi per lo più speculativi, sia estetici che economici; da una parte la volontà di far emergere, magari esaltandosi, il proprio ego artistico pensando di surrogare con l’altezza la mancanza di una proposta architettonica degna di questo nome, dall’altra la possibilità, grazie a questo “semplice” proposta formale, di trasferire un approccio costruttivo basato sulla serialità che segue azioni in modo ripetitivo e uguali tra loro; perchè il grattacielo non deve essere bello deve soltanto affascinare.
© Arch. Alessandro Plini
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